La prospettiva pedagogica del neoidealismo italiano
Aldo Agazzi: La «rivoluzione» didattica di G. Lombardo Radice
Con i Programi del 1923 fanno «irruzione» nella scuola
elementare i contributi di profonda innovazione offerti da G. Lombardo Radice i quali consentono
alla scuola di lasciarsi alle spalle il positivismo e di incamminarsi sulle strade dell’attivismo
pedagogico. La fondazione teoretica, di ispirazione idealistica, è quella gentiliana; ma le indicazioni
e l’intero impianto metodologico-didattico
sono quelle che Lombardo Radice ha costruito con le sue Lezioni
di didattica. Fondamentale è l’opera
di Lombardo Radice che rifiuta la identificazione di
pedagogia e filosofia, e dunque «salva» la pedagogia da morte certa; è fondamentale perché «salva» il
rapporto didattico (il rapporto di maestroscolaro) dalla astrattezza di una mistificante loro «unità». Di
rilievo, da ultimo, il contributo offerto in direzione di una pedagogia popolare, attenta al popolo ed
ai suoi bisogni educativi.
Giuseppe Lombardo Radice irruppe, per così dire, nella
pedagogia e nella didattica della scuola italiana,
per effetto della riforma Gentile del 1923. La pedagogia del
nostro neo-idealismo, infatti, per quanto
elaborata in opere uscite già da un decennio – Sommario di
pedagogia come scienza filosofica di G.
Gentile e Lezioni di didattica del Lombardo Radice, cui si
aggiungerà, a successiva fondazione teoretica
con non pochi spunti personali, L’ideale educativo – non
aveva ancora scosso la tradizione consuetudinaria delle idee pedagogiche e dell’attività
scolastica di osservanza positivista, né erano ancora cominciate, da un lato, le reazioni all’attualismo educativo
e, dall’altro, le tumultuose adesioni dei neofiti. Fu, così, con la riforma del ’23, e per effetto di
essa, che si mise come esplosivamente in moto quel processo di rinnovamento di cui fu autore appunto il
Lombardo Radice, e che trova il suo luogo più
vistoso, più fecondo e più proprio, quasi esclusivamente
nell’ambito della scuola elementare (mentre a
reggere il nuovo corso pedagogico della filosofia
dell’educazione in sede teoretica resta il Gentile).
E l’ambito della rivoluzione didattica fu quello della scuola
primaria non a caso: innanzi tutto perché la
riforma Gentile chiudeva le porte dell’università, dove si
preparavano gli insegnanti di scuole medie, alla
pedagogia, alla psicologia, ai tirocini; perché la pedagogia
gentiliana faceva coincidere sapere e saper insegnare riconducendo anche la didattica alla sola preparazione
scientifico-culturale; e, infine, perché proprio il Lombardo Radice, dando alla scuola elementare, sia
pure con applicabilità ed estensibilità a qualunque grado della scolarità, le Lezioni di didattica, con
il loro fervore innovativo, la loro accessibilità e suggestività, le loro giustificazioni
persuasive, salvava la scuola elementare dall’esilio pedagogico, tenendo nel contempo aperto a tutta la restante
problematica pedagogica il discorso valido
della nuova visione educativa.
Quest’opera tanto fortunata non presenta, tuttavia, soltanto
un salvataggio sul piano storico ed empirico
della scuola vissuta, dovuto ad un pedagogista di razza e di
ispirazione: essa veniva anche a sciogliere sul
piano teoretico e scientifico alcuni degli equivoci più intrinseci,
più insiti alla pedagogia neo-idealista, sia
in Gentile, sia poi, e più nei seguaci, negli epigoni e nei
tanto numerosi facili divulgatori: vale a dire che,
all’idealismo, fossero necessariamente connesse la morte
dell’educazione intesa come «rapporto», in forza del principio dell’immanenza; la fine della pedagogia
come riflessione specifica, in forza della coincidenza fra divenire dello spirito e sviluppo del
soggetto, e per ciò stesso della didattica come attività propria dell’educazione.
Le Lezioni di didattica e L’ideale educativo, con il loro
concetto centrale di «autoeducazione», riconducevano, in effetti, il rapporto educativo a processo
educativo nello scolaro – e questo «processo» riconducevano poi ad atti educativi concretamente e tecnicamente
determinati. Queste caratteristiche riconnettevano di pieno diritto il pensiero del Lombardo
Radice al movimento mondiale delle scuole nuove, che tanto contribuì egli stesso a far noto e operante
in Italia, concorrendo a sprovincializzarlo da
angustie culturali e da mediocre pedagogismo.
Nello stesso tempo, le sue «inchieste a distanza», le sue
esplorazioni nel campo delle scuole in atto e dell’opera dei maestri più creativi e geniali – di cui erano
espressione le relazioni de «L’Educazione nazionale» – inducevano nella sua attività di teorico quella
nota dell’esperienza e dello «esperienziato» – anche se non ancora dell’esperimento e dello «sperimentale» –
che ha consentito alle sue ispirazioni educative di sopravvivere feconde anche all’insorgere di
nuove suggestioni metodologiche e di costituire comunque una letteratura pedagogica di primario valore.
L’entusiasmo, il calore della sua anima, la fede nell’ideale,
il senso religioso della vita, il senso e l’amore del popolo e dell’umanità, l’invitta fedeltà ai
valori della dignità umana, della libertà, del bene, infine, mantennero a Giuseppe Lombardo Radice l’ammirazione e
l’affetto degli uomini di scuola, anche quando il fascismo lo licenziò (o meglio egli se ne licenziò)
e, pur senza una vera persecuzione di violenza, lo proponeva in modo da consentire, ad esempio,
che, nella rubrica intitolata «Teste da spaccare» – che ricorreva nel giornale sindacale dei
tipografi: «Il torchio» – venisse un giorno incluso
anche il suo nome.
In conclusione: un giustificatore del neo-idealismo in senso
autenticamente pedagogico; l’elaboratore e l’animatore del maggior contributo italiano al movimento
delle scuole nuove; il rinnovatore in chiarezza e passione educativa della nostra scuola.
Il Lombardo Radice delle tradizioni popolari, del folklore,
della poesia e della «saggezza» sapienziale della gente povera ed incolta – o piuttosto non dotta – è
stato, e rimane, un pedagogista della educazione popolare, nel senso democratico, sociale, attuale,
d’un’educazione fatta emergere dalle culture e dalle subculture, di un’educazione secondo l’antropologia culturale, colta
nelle sue particolarità e, insieme, nelle esigenze universali e di universali valori, di sapere e di
moralità, di religiosità manzonianamente intesa, come si esprimeva egli stesso, impegnata nelle opere
dell’amore e della giustizia: una universalità, cioè, non amorfa, illuministica, astratta come un concetto logico,
ma vista come umanità storica ed esistenziale fondata nella razionalità e nell’ideale, del quale i grandi
costituivano, per lui, la «milizia».
(A. Agazzi, in «Riforma della Scuola», n. 8-9,
agosto-settembre 1968, numero monografico dedicato a Giuseppe Lombardo Radice)
Mauro Laeng: Il significato storico della pedagogia di G. Lombardo
Radice
Questa la tesi di M. Laeng: innovatore come pochi altri
nell’epoca che lo ha visto nascere, il pensiero di Lombardo Radice sembra esposto al logorio del tempo.
Pensiero ricco di elementi di novità, perché riuscì a recuperare la concretezza dell’educare all’interno
di una cultura, quella idealistica, vittima di una pericolosa astrattezza; pensiero esposto al rischio del
logorio del tempo, perché il recupero della concretezza avvenne in Lombardo Radice attraverso il richiamo
alla cultura popolare, al dialetto, al
folklore, alla cultura popolare e dell’ambiente natio: tutte
realtà coinvolte da una crisi che pare irreversibile sotto le pressioni della civiltà contemporanea.
Una valutazione che, oggi, sembra meritevole di venire
criticamente riconsiderata. Perché la contemporaneità, con le sue logiche tecnologiche e la
massificazione della comunicazione e dei modelli culturali di riferimento, sembra prestare una rinnovata
attenzione alla cultura «locale» e alle sue «radici popolari». Un ritorno da apprezzare, se sa resistere
ai limiti del localismo.
La collocazione storica del pensiero e dell’opera di Giuseppe
Lombardo Radice trova il suo punto d’incidenza nel fervore del primo dopoguerra. È un periodo
difficile della storia nazionale, in cui le illusioni-delusioni della guerra e le difficoltà della
ricostruzione e riconversione alimentano molti revirements pseudospiritualistici e pseudoidealistici, ove il
loglio abbondantemente si mescola al grano.
Ed è qui che spicca una delle sue prime caratteristiche, la
profonda onestà morale e probità intellettuale, il suo impegno autentico di pensiero: al coro dei dannunziani e
dei gentiliani di maniera egli oppone un suo ripensamento dei valori nazionali e spirituali molto più
serio.
La riprova sta nell’assenza di formule e di retorica nei suoi scritti, alieni per gusto e stile dai
luoghi comuni; ci sono, è vero, delle costanti, che coincidono coi passaggi obbligati della ricerca logica e
della coscienza morale, ma sono ogni volta riconquistate dall’interno del discorso e non puramente
presupposte.
Ciò conduce ad accennare la questione dell’originalità del
suo pensiero. Accanto ad un Gentile era facile brillar di luce riflessa o rimaner del tutto sfocati; ebbene,
la favola di un Giuseppe Lombardo Radice «applicatore» della filosofia gentiliana alla pedagogia, se
mai fu accreditata a livello manualistico, dev’essere energicamente smentita, come impropria ad
entrambi. Da ben altre «applicazioni», politiche, sarebbe stato travolto il Gentile. Nel campo della pedagogia
Giuseppe Lombardo Radice, come per altro
verso Ernesto Codignola negli stessi anni, vennero alla
riflessione dall’esperienza e dalla vita educativa e
culturale senza imposizioni di comodo.
La collocazione storica di Giuseppe Lombardo Radice ha pure
un rilevante significato nel quadro della pedagogia europea, negli anni in cui il movimento delle
«scuole nuove», affermatosi sporadicamente tra il 1890 e il 1920, si apprestava a divenire impetuosamente la
punta avanzata di tutta la nuova pedagogia.
Qualcuno ha detto del Lombardo Radice che era il «Ferriere
italiano»: nonostante quel che v’è di improponibile in simili paragoni, è certo che egli doveva
svolgere nel nostro paese, oltre a tutto il resto, anche una attività di reperimento, informazione, promozione
simile a quella svolta dal collega svizzero.
Meno avvenirista, più cauto e misurato, egli ha però rivelato
al mondo esperienze di scuola esemplari: per
cui Cena e Socciarelli, la Maltoni e la Boschetti sono usciti
dal breve giro della cultura locale per entrare in più ampio circuito. È certo che la forte impronta unitaria
dei Programmi elementari del 1923 si giovò anche di questo commento vivo, che usciva da alcune tra le
più umili scuole del paese: l’aver saputo comporre questi svariati motivi in una corrente d’opinione
che doveva divenire un «bene comune» della scuola italiana fu pure suo merito.
L’attualità di Giuseppe Lombardo Radice sembra temere qualche
usura dal mezzo secolo trascorso dopo la sua opera più fortunata. In un periodo di intensa mobilità
sociale verticale e orizzontale, di migrazioni interne, di rimescolamento delle caratteristiche etniche e
regionali, di riduzione o scomparsa del dialetto e del folklore, pare che la «carità del natio loco» si vada
stemperando ormai in una nostalgia lontana.
La nuova koiné linguistica e culturale introdotta dai mezzi di
comunicazione di massa adegua e livella tutti
gli italiani: solo nelle isole e nelle zone allogene
resistono più a lungo certi tratti. Il tesoro della cultura popolare affidato alla tradizione, su cui tanto aveva
insistito il Lombardo Radice, par destinato ad esser dimenticato.
In questo processo c’è qualcosa di irreversibile: e quanto
più cresce l’interdipendenza e l’integrazione sociale, non è certo movimento da contrastare, ma piuttosto
da favorire. Impostazioni simili anche all’estero, dallo Hessen e dallo Spranger al Devaud, stanno
arrendendosi all’onda montante dei fatti. Oltre la Heimat del focolare e del campanile, oltre la vocation
paysanne (da noi si diceva rurale) premono con nuova urgenza i problemi mondiali, con urgenze di solidarietà
un tempo insospettate, con sollecitazioni di rinnova-menti ormai ineludibili.
(M. Laeng, in «Riforma della suola», cit. )